La scenografia è essenziale. Otto sedie d’epoca e quattro sbarre. L’opera teatrale Atti osceni non racconta soltanto il tempestoso iter processuale di Oscar Wilde, ma è una riflessione sulla giustizia, sull’autenticità, sull’arte.
La pièce, in scena al Teatro Elfo Puccini di Milano fino al 12 novembre, ricostruisce i tre processi subiti da Oscar Wilde nel 1895 per sodomia, reato che, per altro, l’Inghilterra ha continuato a considerare tale fino alla metà del ventesimo secolo. Sul banco degli imputati, tradito e umiliato dal perbenismo vittoriano, lo scrittore irlandese viene condannato a due anni di lavori forzati. Per Wilde, è l’inizio della fine. Morirà nel 1898 a Parigi, in miseria. Nonostante ci fosse la possibilità di lasciare il Paese, l’autore decise di restare e di pagare fino in fondo la sua condanna, che fu massima.
Il testo è di Moisès Kaufman, noto drammaturgo e autore televisivo statunitense di origini venezuelane, con la traduzione di Lucio De Capitani. La struttura è originale, perché chiede agli attori la capacità di diventare narratori e di instaurare un rapporto diretto con il pubblico, che è continuamente stimolato a fare parte della narrazione.
Moisés Kaufman ha scelto di dare spazio a molteplici punti di vista; come in ogni processo, anche in quello di Wilde, i punti di vista sono diversi: c’è quello di George Bernard Shaw, quello di Lord Alfred Douglas e di Frank Harris. Ognuno racconta una sua versione della storia.
All’interno di un’aula di tribunale, nel serrato dibattito, non mancano momenti poetici, ironici e, talvolta, commoventi. La vicenda mette in luce la vera posta in gioco: la libertà (negata) di essere artisti contro le mortifere convenzioni sociali.
Nel ruolo del protagonista, un azzeccato Giovanni Franzoni, in grado di modulare il suo personaggio con un’eleganza da dandy e una notevole prossemica.
Uno spettacolo assolutamente imperdibile, risultato del raffinato lavoro dei registi Ferdinando Bruni e Francesco Frongia, che si conclude sulle note, non a caso, del brano musicale God save the Queen di Freddy Mercury.