Il Festival di Natalia Bondarčuk e la ricerca dell’anima

Con geniale intuizione Natalia Bondarčuk ha introdotto “Giriamo insieme” il Festival Internazionale del cinema delle scuole di Sergej Fëdorovič Bondarčuk a Genova del 17-18 giugno 2018 proponendo alcune immagini di Pavel Boriskin e Sergei Bondarčuk nel film Il destino di un uomo (Судьба человека).

Una gemma preziosa per introdurre un Festival giovane e assolutamente innovativo.

Pochi minuti per dare allo spettatore la sensazione del rapporto tra due mondi che si incontrano quello degli adulti che per recitare diventano bambini attraverso la reviviscenza, l’immedesimazione la ricerca del magico “se” e il mondo vero dei  bambini che vivono la recitazione con la spontaneità con cui scoprono la realtà.

Avrei voluto rivedere quelle immagini, fermarle e studiare con attenzione gli occhi del bambino e dell’adulto che si incontrano, l’abbraccio finale dove entrambi vivono un momento drammatico e da prospettive esistenziali completamente diverse ricreano se stessi attraverso le emozioni dei protagonisti del film. La gioiosità della sala, l’allegria del pubblico spingevano per il Festival e qui un’altra sorpresa davvero incredibile: la scoperta della recitazione dei bambini.

Per dovere di cronaca ripercorro la selezione dei film: è stato presentato il film Cappuccetto Rosso. Il Gran Premio del festival è stato assegnato a due scuole spagnole: a Valencia per il film Goldfishcon la regia Julia Vashchenko Rodnina e a Salou per Barmalei con la regista Irina Ekimova. Il Premio di simpatia del pubblico è stato assegnato alla Paris Film School per il film Non disponibile, diretto da Lyudmila Drobich. Il miglior film basato sulle opere di Chukovsky è stato assegnato alla scuola irlandese con The Fly of the Tsokotuk, regista Anastasia McCabe e Telephone Russia. Denis Kuchera ha ricevuto il Diploma per il miglior ruolo da ragazzo nel film Telefono. Il diploma per il miglior ruolo di ragazza è stata assegnato a Daria Bychkova di Malta. Come miglior film ispirato alle opere di Pushkin a Golden Fish di Larisa Smirnova di Genova e Goldfish diretto da Lubava Farrujia di Malta.

Quello che mi sembrava un grande ostacolo, la modesta conoscenza del russo, è riuscito ad impormi una concentrazione maggiore sugli sguardi, i gesti, la mimica e le parole russe che non conoscevo, a cogliere a fondo la contaminazione tra immagini, parole, suoni. Un tutto unico che traduceva le situazioni che i giovani attori vivevano e in cui mi immedesimavo.

L’originalità del lavoro di Natalia parte dalla comprensione dell’esistenza che la induce a scoprire la grande potenzialità dei bambini materializzata nelle azioni proiettate sullo schermo. In tutto questo, Natalia, erede di una grande tradizione, propone qualcosa di particolare che solo i russi riescono a comunicare: l’anima.

Ha ragione Virginia Wolf quando afferma che il confine tra il mondo russo e l’occidente è la ricerca dell’anima che per i russi si prefigura come il tentativo di comprendere uno stato ontologico di libertà interiore, di definire la propria esistenza, raggiungere l’infinito, l’eterno, l’assoluto. Questo è qualcosa che pervade il popolo russo, che fa parte del DNA, dell’irrazionale. L’originalità del lavoro di Natalia parte da qui: un percorso profondo, complesso che affonda le radici in una riflessione sulla dimensione che pervade la sua esistenza. Per il pragmatico mondo americano, gli attori bambini come Shirley Temple sono i protagonisti di un rito collettivo, soprammobili divertenti costruiti per vendere prodotti e fare audience.

Osserviamo con attenzione Shirley Temple, Bobby Driscoll, Yudy Garland e tanti altri e scopriamo che in loro non c’è anima, questa cosa impalpabile, eterea, indefinibile al centro di ogni riflessione del popolo russo, è difficile da capire. I bambini di Natalia hanno qualcosa di profondo, parlano e si muovono col cuore. Sono se stessi anche nei più piccoli gesti, in uno sguardo. Non a caso Luchino Visconti ironizzava sull’uso americano del metodo Stanislavckij, definendo l’Actor’s studio una esasperazione maniacale. Per gli americani tutto questo resta inaccessibile a qualunque spiegazione razionale perché l’anima si percepisce, non è intellegibile. Neppure il regime sovietico riuscì a togliere dal cuore dei russi il concetto di anima. Eugenio Zamjatin scrisse La parola ‘anima’ è nella buona società sovietica una delle più sconvenienti, quasi inammissibile, ma nella mia qualità di scrittore, che ha il diritto d’usare il linguaggio figurato, questa parola mi sarà forse permessa.

Quando il Festival è finito il pubblico ha applaudito ciascuno portando a caso un frammento di una giornata straordinaria.

Eugenio Zamjatin, Il teatro sovietico: attori-poeti-registi, in Scenario, 1932. 05; cfr. Triade perfetta: autore-regista-attore, in Il Dramma, 1933.03.15

 

Elios
Editoria - Arte - Spettacolo
info@elioseditoriale.org