Filippo Rovati é un attore della scuola milanese di Lella Heins. Ha scoperto la sua vocazione giovanissimo e ha unito alla pratica del palcoscenico uno studio attento e riflessivo, sulle grandi rivoluzioni nel teatro del ‘900 e i suoi sviluppi nel mondo americano in particolare all’ Actors Studio. In questa intervista ci racconta del suo impegno e della sua passione per l’arte, nata in famiglia grazie alla zia attrice, a quella per la musica, e molte altre cose.
Come nasce la tua passione per il teatro? Uno dei primi ricordi legati al teatro è di me che interpreto una guardia del principe in una riduzione della Turandot. Avevo tre anni. Mia zia Laura, che per vent’anni ha lavorato nel teatro e in tv come attrice, mi aveva coinvolto. Il nostro rapporto si è nutrito di questa passione per tutta l’infanzia, io mi divertivo e mi impegnavo a provarle le battute, assistevo alle prove, agli spettacoli, andavo dietro le quinte a curiosare e ad abbracciarla quando la rappresentazione era conclusa. Lei sapeva che era un mondo adatto a me, che già allora ero un piccolo istrione, logorroico e vivace, egocentrico e curioso. Le sarò per sempre grato di aver condiviso questa sua passione con me, che è per me oggi il motivo principale della mia felicità.
Successivamente ci sono stati diversi incontri fondamentali, tra cui non posso non citare il mio professore di teatro e musica delle scuole medie, Giuliano Finessi, a cui ho dedicato la tesi di laurea magistrale. Lui e la prof. di lettere, anche lei figura di riferimento cruciale, mi hanno fatto sentire speciale e talentuoso grazie alla recitazione, in un periodo di grande insicurezza e fragilità. Direi che l’imprinting principale lo devo a queste persone, che mi hanno contagiato indelebilmente.
Il tuo rapporto con il teatro passa attraverso un percorso di riflessione e di studi. La tua tesi di laurea è il risultato di un grande lavoro. Certamente la cultura è per me essenziale, ti permette di conoscere chi ti ha preceduto ed essere consapevole di cosa puoi in prima persona dare con il tuo lavoro. Credo che del teatro mi abbia sempre attratto il fatto che, riprendendo la definizione di Grotowski, l’evento spettacolo abbia bisogno soltanto di un io attore, di un tu spettatore, e di uno spazio comune in cui vivere l’esperienza. Raccontarsi storie attorno al fuoco, evocare racconti antichi di dei o di antenati, ricreare la vita di personaggi immaginari, eppure così vicini a noi. Questa dimensione innata, ancestrale, antropologica che ci porta a condividere storie e a ritualizzarle credo sia alla base di tutte le relazioni umane, e della comunità. È un po’ come mettere in dialogo il bambino che c’è dentro ognuno di noi, sia chi racconta che chi ascolta. Pian piano, anche io sto cercando di trovare il mio posto in questo cammino collettivo, trovandomi a raccogliere il testimone dai miei maestri per portare a mia volta la mia voce e la mia visione. In questo senso la riflessione di Stanislavskij, con la tradizione a lui collegata, credo abbia avuto un profondo impatto sulla mia ricerca artistica sia a livello pratico che a livello di consapevolezza etica e spirituale, e per questo motivo ho scelto di indagare questo tema nella mia tesi di laurea.
Pratica e teoria come riesci a coniugare due cose così vicine ma profondamente diverse? Lo studio della storia del teatro è per me un viaggio alla scoperta degli uomini, delle loro storie, delle loro idee delle loro esperienze ed emozioni. Quando vedi il dispiacere per uno spettacolo non di successo o la gioia per un progetto acclamato, o ancora le esitazioni per tentativi di ricerca di approcci diversi, e poi la soddisfazione nel vederli all’opera, i grandi Maestri del passato ti sembrano vicini come colleghi o perfino amici. Così è come instaurare un dialogo con chi ha la tua stessa passione. Nel mio caso ho scelto di approfondire la teoria delle tecniche del Sistema Stanislasvkij e del Metodo Strasberg, grazie al fatto che già avevo incontrato alcune di queste tecniche e le avevo interiorizzate nella pratica di scena. La recitazione è un’arte pratica, “di bottega”, è artigianato, craft per gli americani, e tornare a studiare la teoria dietro a tecniche che già avevo sperimentato nelle classi della Palestra per Attori di Lella Heins a Milano e anche con lezioni private con lei sia in italiano che in inglese mi ha permesso di avere una comprensione umana e personale di ciò che stavo studiando, e non solo accademica e teorica. Dall’altra parte la consapevolezza di ciò che stavo studiando mi ha permesso di nutrire la mia immaginazione e la mia curiosità e di fornirmi nuovi stimoli per crescere nella recitazione.
Hai fatto un’ esperienza veramente importante a New York. Cosa ci puoi raccontare? Provo a riassumere il tutto in quattro parole chiave: attesa, vita, performances, e peanut butter. L’attesa del viaggio, concretizzatosi dopo anni di studio, è quello che lo ha reso così speciale, mettendo alla prova la mia motivazione. Dopo anni in cui lo progettavo, dopo essere stato accettato, grazie alla preparazione per il provino d’ammissione in inglese con Lella, per studiare all’ American Academy of Dramatic Arts, dopo essermi laureato, è successo nel momento giusto, quello in cui io ero pronto e New York mi stava aspettando, come una zia che non vedi da una vita e che quando incontri ti stringe così forte che ti stropiccia il vestito.
New York è vita pulsante, energia frenetica, è come una coreografia di Broadway a cui partecipano milioni di persone, con tutte le sue difficoltà e contraddizioni. Mi sono sentito vivo e presente in ogni istante, conoscendo ogni settimana persone incredibili, animate da passione ed altruismo, stringendo legami che mi auguro dureranno nel tempo.
Le performances sono quelle che ho dato io in teatro, nelle classi che ho frequentato e anche lavorando sul set con un giovane e talentuoso regista conosciuto alle prove, Fabio Caredda, e che mi ha coinvolto nel suo film; ma sono anche quelle che ho ammirato negli spettacoli a Broadway e Off- Broadway. Non credo di essermi mai emozionato così tanto a teatro come spettatore, sia con i musical che con la prosa. Una vera ispirazione.
E infine il peanut butter, il nutrimento principale, del mio soggiorno. Ad alto apporto calorico e basso costo, un delizioso panino con peanut butter è perfetto per chi come me vuole investire in eventi, corsi di recitazione e canto, spettacoli e prova a risparmiare sul resto in una città in cui un sandwich può costare 10$, e una sistemazione in un seminterrato a Brooklyn 120$ al giorno. Per stare a galla bisogna sapersi arrangiare con quello che si ha, perché New York non ti viene incontro, è una città difficile, costosissima, caotica, e piena di contraddizioni, con le spettacolari luci di Times Square e decine di senza tetto a pochi metri di distanza. Però l’energia che si respira e gli incontri che si possono fare valgono davvero la pena, specie per un artista ipercinetico come me.
Quali sono i tuoi progetti per il futuro? Sono in una fase di trasformazione, dopo il viaggio, la laurea e tutto il resto ho come chiuso un ciclo. Ora voglio prendermi il tempo per trovare dei nuovi progetti interessanti. Continuerò a collaborare e studiare con Lella Heins, partecipo già come attore al gruppo di scrittura che tiene in collaborazione con lo scrittore e regista Franco di Leo a Milano, e con Susan Batson, che ho incontrato a New York. Ho in piano diversi provini per progetti sia teatrali che filmici, spero di poterci lavorare presto. Proseguirò anche con lo scrivere canzoni, dovrei anche esibirmi con i miei brani a breve. Infine, desidero progettare con cura il mio prossimo periodo negli Stati Uniti.