Franco Arminio è nato a Bisaccia, dove vive. Poeta, scrittore e regista, ha pubblicato raccolte di versi e libri di prosa. Autodefinitosi “paesologo”, ha raccontato i piccoli paesi d’Italia descrivendo con estrema realtà la situazione soprattutto del Mezzogiorno d’Italia. È documentarista e promotore di battaglie civili: si è battuto, ad esempio, contro l’installazione delle discariche in Alta Irpinia e contro la chiusura dell’ospedale di Bisaccia. Collabora con diverse testate locali e nazionali come il Corriere della sera, Il manifesto, e Il Fatto Quotidiano e ha realizzato anche vari documentari. Dopo il racconto erotico L’universo alle undici del mattino, nel 2003 pubblica Viaggio nel cratere in cui racconta l’Irpinia di oggi, le zone colpite dal grande terremoto del 1980.
Roberto Saviano lo ha definito «uno dei poeti più importanti di questo paese, il migliore che abbia mai raccontato il terremoto e ciò che ha generato». Ha pubblicato molti libri con successo di critica e di pubblico tra i quali Vento forte tra Lacedonia e Candela (2008, Premio Stephen Dedalus per la sezione Altre scritture), Nevica e ho le prove, Cronache dal paese della cicuta (2009), Cartoline dai morti (2010), Terracarne (2011), Geografia commossa dell’Italia interna (2013). Ha pubblicato numerose raccolte di versi, tra cui Le vacche erano vacche e gli uomini farfalle (2011), Stato in luogo (2012), Cedi la strada agli alberi. Poesie d’amore e di terra(2017, premio Brancati 2018), Resteranno i canti (2018) e L’infinito senza farci caso (2019).
Come nasce il tuo amore per la poesia? Ho cominciato a scrivere che avevo quindici anni, più o meno. Le mie prime poesie erano molto acerbe e da allora non mi sono mai fermato. Questa passione è nata da una mia insicurezza, inquietudine, banalmente si potrebbe trovare la ragione nel fatto che non sapevo salire sugli alberi mentre tutti i miei amici lo sapevano fare, non sapevo salire la pertica mentre tutti ci riuscivano, forse era una sorta di protesi per darmi la forza che sentivo di avere.
L’amore per il paesaggio e la campagna è nato parallelamente a quello della scrittura? Sono rimasto a vivere nella casa dove sono nato. Da ragazzo non amavo tantissimo il paesaggio, non capivo la campagna, conosco tutt’ora il nome di pochi alberi e di pochi fiori.
Negli ultimi anni mi sono avvicinato al territorio. Mentre il paesaggio umano mi ha deluso, è cresciuto il mio interesse per il paesaggio naturale. Non è una cosa che mi porto dall’adolescenza perché ero preso dall’amore verso la scrittura e la lettura. La meraviglia per il mondo esterno l’ho scoperta più tardi, verso i quarant’anni.
Ti sei autodefinito un “paesologo”, cosa significa? Ho coniato questa parola in un libro dove raccontavo i paesi terremotati irpini. Il paesologo si occupa della salute dei paesi, ed è il contrario del paesanologo, perché non si occupa del passato, ma del futuro e del presente del paese, nell’idea che i paesi abbiano un avvenire. E’ una forma di attenzione non intellettuale, è proprio un immergersi nella vita dei paesi. Attraverso il paese con il mio corpo che si impregna di sensazioni, poi a casa rilascio sulla pagina tutte le emozioni che ho assorbito in questo viaggio. Non è come il sociologo che va a cercare le questioni del lavoro, lo storico dell’arte che cerca l’affresco, è una via di mezzo tra l’etnologo e il poeta. Mischia cose oggettive con cose soggettive, per esempio in un racconto di paesologia posso parlare di mia cugina Carmela; è una scienza umorale, legata anche alla mia condizione del momento.
Hai affermato che è il momento di puntare sulla terra, pensi che sia veramente finito il tempo dell’industria e il mito del progresso? No non è finito, l’industria non bisogna demonizzarla tutta, è un’invenzione umana che ha una sua logica, produce dei prodotti anche buoni. Io sono per una modernità plurale dove rimane in piedi il modello industriale senza uccidere gli altri modelli come l’agricoltura non industriale. Il mondo ha bisogno anche di non essere operoso, ha bisogno di riposarsi se si vuole salvare e vuole salvare le altre specie viventi. No all’industria all’economia come elemento onnipresente, pervasivo, sì invece a una modernità che contempla l’industria ma anche l’agricoltura e la poesia.
La società capitalistica ha svuotato l’essenza degli individui? Mi pare che questo modello di produzione e consumo portato all’esasperazione, produca grandi diseguaglianze e non mi pare che conduca alla felicità. Qualcosa da ripensare c’è, credo sia utile avere delle perplessità rispetto a questo modello.
Quale può essere il contributo dei borghi dell’entroterra, delle zone interne, per il rilancio del nostro paese post pandemia? In tutto il mondo ma soprattutto in Italia, ci sono molti borghi con abitazioni abbandonate, c’è un grande patrimonio edilizio, c’è cibo, luce e silenzio, credo sia naturale, non dovremmo neppure parlarne. Il governo invece di fare gli stati generali dell’economia, poteva fare gli stati generali dei paesi, poteva dire agli italiani di fare un lavoro tutti insieme per riorganizzarci e cercare di favorire il ripopolamento delle campagne e dei paesi. Il modello urbano va bene, la città deve funzionare, ma anche i paesi. Una nazione ha bisogno di paesi, di città e di campagne, ognuno deve fare il suo lavoro, non si può eliminare la città, è giusto che ci sia, ma non si può neppure far morire il paese. Probabilmente stiamo sprecando un’occasione, perché la ripartenza è all’insegna del ritorniamo alla normalità senza mettere in discussione un bel niente. In tutto il mondo mi sembra così.
Hai affermato di rifuggire le categorie e di lanciare messaggi con le tue poesie. Come definiresti la tua poesia? Questa è una cosa un po’ rischiosa perché molti poeti sono convinti che nelle poesie non si debbano scrivere consigli o precetti. Molte mie poesie sono consolatrici, a me vengono così. Credo che la poesia debba anche avere questo scopo, deve contestare ma può anche consolare, può essere anche semplice non per forza complicata, la semplicità non è necessariamente banale. Cerco una lingua che sia allo stesso tempo raffinata e popolare, ci lavoro da quarant’anni, a volte mi riesce a volte no, sono consapevole dei rischi che corro, di cadere a volte nella banalità o nella retorica, ma se non corri dei rischi non sei un poeta.
Nella tua ricerca di questo mondo antico ci sono dei riferimenti a Pasolini? Quali sono i tuoi riferimenti poetici? Sono tanti, Pasolini sicuramente è un autore che sento vicino per la lettura della società e anche per il suo interesse verso il cinema e la prosa perché anch’io nel mio piccolo faccio queste cose. Altri che amo molto sono Caproni, Penna, amo anche poeti lontani dalla mia scrittura come Amelia Rosselli. Dipende molto dai periodi. Un mio maestro è Gianni Celati, ritengo che mi abbia condizionato in modo positivo a guardare il mondo esterno, a guardare le cose qualsiasi in un giorno qualsiasi. Certamente ho avuto dei maestri e li cerco continuamente, io credo che i maestri siano importanti, ma non li devi subire.
Tu hai fatto battaglie ambientali e sei attivo politicamente, quanto pensi che gli italiani siano attenti all’ambiente? Pur avendo un territorio meraviglioso e vario gli italiani non sono molto attenti all’ambiente. In questo periodo se ne sta parlando di più, ma sono sempre piccole frange di nicchia. Non è una questione culturale anche perché storicamente i grandi partiti come la D.C. e il P.C. non hanno mai parlato molto dell’ecologia e anche oggi è difficile trovare un partito con una netta marcia ecologista in un momento in cui sarebbe necessario parlarne. E’ un esercizio retorico parlarne solo quando c’è una catastrofe. Serve insistere, la situazione è migliorata negli anni, c’è più attenzione rispetto a venti anni fa, però mi pare che l’Italiano generalmente non sente la natura cosa sua, e pensa di più al suo salotto.
Sei direttore artistico del Festival della paesologia “La Luna e i Calanchi”, un festival dedicato al paesaggio? Dura quattro o cinque giorni, ventiquattro ore su ventiquattro a oltranza. E’ un festival molto bello e vario; c’è un po’ di tutto: poesia, cinema, teatro, fotografia, arti visive.
Mette insieme la popolazione, gli artisti invitati e il pubblico che viene da tutta Italia. Si forma in quei giorni quella che io chiamo comunità provvisoria, un paese nuovo. E’ un’atmosfera molto sensuale. E’ molto difficile che lo faremo quest’anno perché è un festival molto fisico, basato soprattutto sulla vicinanza.
Stai lavorando ad un nuovo libro? Esce a Luglio, sta notte ho mandato le ultime correzioni, è un libro di prose, si chiama La cura dello sguardo, nuova farmacia poetica, esce per Bompiani. L’ultimo libro di prosa l’ho scritto nel 2013. Curiosamente curo molto di più i libri di prosa che quelli di poesia, diciamo che il rapporto di lavoro è uno a dieci, alcuni pezzi li ho scritti anche cinquanta volte, spero che il risultato sia buono ci ho lavorato tanto.
Hai pubblicato un libro con Giovanni Lindo Ferretti? Come è nata la vostra collaborazione? Con Giovanni abbiamo fatto un incontro insieme a Roma e ci hanno proposto di fare un libro sul nostro incontro. Quando ci hanno mandato i testi, rileggendoli non si capiva granché e cosi abbiamo deciso di farci mandare le domande e rispondere ciascuno per conto proprio e poi incrociare le risposte. Giovanni lo conosco bene, siamo molto lontani sia nelle concezioni del luogo che di politica generale. E’ una persona molto rigorosa, sono contento di aver fatto questo libro con lui, anche se forse riconosco che non mi sono impegnato abbastanza, se oggi dovessi riscrivere quel libro ci lavorerei di più.