Jacopo Cascella e il rifiuto della banalità dell’esistenza. 2

Jacopo Cascella e il rifiuto della banalità dell’esistenza. Seconda Parte.

L’occhio non vedrebbe mai il sole se non fosse già simile al sole, né un’anima vedrebbe il bello se non fosse bella. Plotino Enneadi I,6,9,30-32

 Jacopo Cascella…Il quadro del mare è canto fantastico. Se si chiudono gli occhi si sentono le onde infrangersi le une contro le altre, ma in realtà la musica è dentro di noi evocata dall’immagine. Il mare sembra in movimento. Non è in movimento. E’ fermo, immobile e non può essere diversamente. Non è un mare, le onde sembrano travolgere una spiaggia che non esiste, ma potrebbe esistere. Sono le ipotesi di tutto ciò che può essere e non essere. In alto, un sole irreale, fantastico illumina tutto senza riuscire a fare luce sulle onde.

La prepotenza del sole squarcia le nubi, ma non riesce a vincere. Si tratta di un originalissimo assemblamento di simboli (vedi la suggestiva tavola Pensiero quodiano) che nasce dalla constatazione che al vivere è essenziale l’unità. Jacopo costruisce l’unità del quadro a partire dalla molteplicità del reale, assemblando più elementi tra loro e al tempo stesso opera in senso inverso: da un principio semplice fa scaturire il molteplice il grande sole che domina molti quadri. Jacopo ci guida nella ricerca del principio che guida la vita, che si sviluppa da sé, in virtù di una forza interiore che è la stessa che la fa vivere, il principio vitale da cui prendono forma le piante, gli animali, e gli esseri umani.

Chi guarda ha una sensazione psichica molto intensa quasi la cessazione della razionalità discorsiva e la dilatazione del mondo emotivo. La mente rimane attonita nel fissare un punto o un oggetto, dimentica ogni altro pensiero. Una sensazione di benessere interiore di cui si avverte la duplice sensazione di abbandono e il bisogno di fuga.

L’arcobaleno che separa il mondo delle tenebre dalla luce.

Altro tema ricorrente nelle opere di Jacopo Cascella è l’arcobaleno che separa il mondo delle tenebre dalla luce. L’arcobaleno è di volta in volta insidiato da nuvole o fantasmi al di là delle quali si apre il mondo. Un dualismo in cui le opposte forze dell’universo interiore tendono ad equilibrarsi. Quando arriva l’arcobaleno si apre la dimensione della vita, dove si ritrova un paesaggio tanto irreale quanto vero: un albero, un mare, un prato, montagne a forma di piramidi, grandi fiori rossi e ancora una scala che sale e scende, un mare, alberi, e montagne a forma di piramide, un mano dentro un ipotetico sole.

E’ la mente che costruisce la realtà e crede nella realtà che ha creato perché è la dimensione del proprio io. Arriviamo al quadro con un grande gallo simbolico di un mondo a cui svegliarsi e aprire la coscienza alla più profonde dimensione dell’esistenza perché il nostro impegno non è rivolto a liberarci dal peccato, ma ad essere Dio. Plotino dalle Enneadi, I 1, 9. Una ricerca artistica articolata sui morfemi arcaici evocativi di significati ancestrali enunciati e definiti figurativamente. ma aperti al significato di chi guarda. I simboli non sono univoci, creano una narrazione sciolta dalle regole semantiche. Sono non cose che intrecciano significati e percorsi diversi dove chi guarda cerca di conoscere.

Un percorso antitetico dove tutto è uno. Jacopo canta l’unicità, l’irripetibilità, la bellezza dell’esistenza. In questo senso, è il capovolgimento del lavoro di Wahrol che scientificamente distrugge l’unicità dell’oggetto. Nel progetto capitalistico di mercificazione dell’esistenza stessa. Se Wahrol è il profeta della società di massa, dei consumi demenziali, dell’uomo senza identità, del nulla. Jacopo con un umanesimo legato alla tradizione europea invita a pensare, a riflettere, a capire. Non dà soluzioni, ma crea il percorso in cui i simboli sono la vita stessa. Ciascuno può cogliere un aspetto, ma tutto resta definito, certo, preciso. Jacopo invita a pensare e a capire l’esistenza. Perché l’insegnamento giunge solo a indicare la via e il viaggio, ma la visione sarà di colui che avrà voluto vedere. Plotino Enneadi, VI, 9, 4.

Elios
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