Imaginary City, l’arte di Marina Kaminsky

Città grandi, città piccole, paesi e metropoli. Un susseguirsi di fotogrammi di vita percorsi in una visione personale, come visti da un treno che corre rapido in luoghi senza nome. A volte il bello è stato nella corsa in sé, lampi di luce soffiati dal vento a cui correre dietro con la testa per aria, a guardare la tavolozza del cielo per dipingerci sopra le nuvole sgargianti delle mie emozioni. I miei blu, astrali cobalti o i rossi sensuali e fiammeggianti che si intersecano in spazi liquidi. A volte, invece, mi sono fermata, sono scesa dal treno e ho fermato i fotogrammi. Come adesso che sono arrivata qui, nella metropoli . Qui, dove tutto ha un senso solo nel movimento, incessante, 24 ore su 24, città che non dormono mai, che producono sempre e sono sempre senza stelle sopra la testa.

Parigi come Milano, Mosca o Gerusalemme e tutte le altre così uguali nella monotonia orizzontale del tempo, nell’assenza claustrofobica di spazio, nell’indifferente promiscuità fisica tra gli umani. E’ qui che mi sono fermata per guardare meglio e più da vicino se esiste poesia dove non c’è tempo. E in quel momento mi è apparsa davanti la soluzione per fermarmi a pensare, “ tò, uno spazio per me ..”, una panchina. Era caldo, ero stanca, era Gerusalemme e quella panchina è apparsa come una fata morgana e si è materializzata come un oasi di conforto. Forse aspettava me, come tutti quelli che sono passati e l’hanno vista, e così mi sono seduta . Un senso di gratitudine immenso mi ha pervaso per quell’umile arredo urbano di legno stinto. Così ho pensato che meritava di essere ricordata e l’ho fotografata. E’ stata la mia prima panchina, il mio primo fotogramma in slow motion, in totale controtempo alla centrifuga metropolitana che spinge alla sincronizzazione gli individui, pena l’espulsione. Era ciò che più temevo, sedermi e sentirmi una spettatrice senza ruolo. Ma così non è stato, ero dentro e anch’io giravo con il mondo, ma non spingevo per farmi largo ,mi lasciavo portare.

Le panchine parlano di tempo libero, di conversazione, di gioco, di amore, di riposo , di casa, di umanità. Ma le mie no. Le mie parlano di un’attesa , colte vuote , geometrie romantiche e funzionali , senza nessuno .In quel passaggio che avviene tra un ospite e un altro. Quasi sospese e confuse nelle segmentate linee metropolitane che accelerano verso l’alto la spinta alla felicità, ecco che si elevano le scale. Un altro squarcio nella metropoli che implica una circolazione, un rallentamento, una disciplina civile , nel salire e nel scendere. La vita è fatta a scale, ma la realtà è di gradini dove non si può sostare per più dell’attimo che la corrente umana concede. Le scale non sono fatte per fermarsi , come per il sangue, il flusso deve circolare anche quando si arrampica o precipita fuori dai rettilinei. Non è solo la funzione ,quanto la ridefinizione architettonica dello spazio , che mi interessa esprimere. Sono le ombre che compongono, i chiaro scuri dei gradini, i materiali e i contesti che uniscono. Perché è vero che con le scale si arriva in alto, ma è anche vero che con le scale si fanno i ponti. Marina Kaminsky, IMAGINARY CITY.

Biografia. Marina Kaminsky è nata in Siberia, dove il padre Vladimir era dislocato come ufficiale dell’Aeronautica Militare Sovietica, e dopo averne seguito i numerosi spostamenti nel Paese, nel 1984 Marina Vladimirovna Kaminskaya si stabilisce presso una zia a Tallinn, in Estonia, per frequentarvi l’Istituto d’Arte, diplomarsi e  formalizzare così una passione coltivata fin dall’infanzia. Prosegue poi gli studi all’Accademia di Belle Arti di Mosca e qui inizia anche il suo personale cammino di maturazione artistica. Dal 1994 Marina Kaminsky vive con la figlia Kristina a Milano, insegnando e lavorando in una rivisitazione in chiave moderna dell’antica “bottega d’arte”, l’Atelier M.K. in Blu che, per le caratteristiche delle sue opere, è stato definito un “grido di colore” nel cuore della città. La sua attività espositiva l’ha portata ad essere presente in numerose personali e collettive sia in Italia che all’estero ed è stata selezionata da Vittorio Sgarbi alla 54ª edizione della Biennale di Venezia (2011) per la mostra al Palazzo delle Esposizioni di Torino.

Caratteristiche stilistiche. Marina Kaminsky è un’artista “in costante ricerca”: dalla sua pittura espressiva traspaiono infatti sollecitudine e sensibilità per sempre nuove suggestioni e continui sviluppi, in quella “fisiologica contraddittorietà” che rappresenta uno degli elementi più stimolanti delle sue opere. Un’apertura alla sperimentazione tecnica e all’indagine intellettuale ed emotiva che si muove con disinvoltura sulle solide basi della pittura europea di fine Ottocento, sia pur filtrata attraverso la tradizione coloristica russa e la lezione del realismo socialista, fino agli attuali esiti dell’arte informale. Il risultato sono tele audaci e vive, infiammate dai toni accesi e intensi dei suoi rossi, blu e gialli, assecondati da linee e forme nervose, cariche di energia dirompente.

Le opere di Marina Kaminsky sono un riflesso della sua personalità e delle sue emozioni, “uno spaccato sul suo mondo” secondo il pittore Murat Dishek, tutto declinato al femminile con qualche sfumatura femminista. In ogni caso, indipendentemente dai soggetti trattati, esse rivelano sempre l’energia creativa da cui nascono, con un linguaggio artistico impulsivo che esula da qualsiasi schema o regola per soddisfare invece esigenze intime di raffigurazione, come se l’urgenza della passione interiore guidasse la sua pennellata veloce in repentine e simboliche decifrazioni di un mondo onirico privato e recondito.

Elios
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