A cura di Giuseppe Martini. Chiudete gli occhi e ascoltate Simon Boccanegra. Dimenticate Verdi che immaginate i grandi effetti visivi, chiari di luna e notti magiche sul golfo:
«Se io fossi pittore farei certamente una bella scena: semplice e di grande effetto.»
E invece lasciatevi cullare dal preludio ingannatore, che simula la pace di un mare largo e incontaminato, dove si è liberi e lontani dagli affanni.
Siamo invece sulla terra, e il mare è solo uno sfondo che impregna l’aria di una finta calma. Lo capite dal colore acido che prende appena prima che Paolo Albiani apra bocca per condurre i suoi intrighi elettorali. Eppure è quello uno scampolo di verità, quell’attimo in cui la realtà si presenta nel suo cinico squallore e poi subito torna ad assomigliare alle aspettative di ciascuno: è sempre tardi quando si comprende che quelle aspettative sono solo un surrogato della realtà, che invece è sempre stata se stessa, lampante, indifferente. Boccanegra incontra Fiesco e pensa che le cose stiano diversamente da come stanno realmente. Sale a palazzo per incontrare la sua Maria e trova invece un cadavere.
Quel colore musicale delle onde continua a scorrere nel parlamentare di Paolo e Pietro; nella proposta, che è un ricatto, di Paolo a Boccanegra; persino sotto sotto la nenia di Paolo sui misteri di palazzo Fieschi, che a suo modo è un comizio contro la nobiltà. S’interrompe solo dinnanzi a Jacopo Fiesco, perché è l’unico che ormai non ha più illusioni: l’ultima gli è caduta quando ha capito di non poter riavere la nipotina. Da quel momento, cala su di lui e su Boccanegra la fredda cappa della vecchiaia senza affetti.
Quando Boccanegra riappare, nel primo atto e un quarto di secolo dopo, è ormai un essere spento, le uniche motivazioni che sembrano tenerlo in vita sono il ricordo e il dovere politico. È l’uomo che non ha speranze di sanare le ferite del passato, anche se è riuscito a ricomporle in quel destino fatale e tutt’altro che indesiderabile che è la saggezza della maturità. Il suo è un canto virile e assennato, Verdi si era raccomandato che trasmettesse
«la calma, la compostezza, e quella certa autorità scenica indispensabile per la parte di Simone.»
Non vanno sottovalutati quei venticinque anni fra il prologo e il primo atto, che per noi passano fra applausi e qualche minuto di attesa. Sono venticinque anni in cui quei personaggi hanno vissuto. In cui ogni giorno che ci si abitua al rimorso è un giorno guadagnato. Per altri sono anche i giorni in cui è fiorita la gioventù, come tutte le cose che nella natura si succedono impietose sotto le spoglie dell’energia che si rinnova – ma chi ride oggi, piangerà domani.
Eccoli, i giovani. Non è più notte come nel Prologo. L’alba del primo atto è ancora sotto l’insegna del mare, orizzonte infinito e senza riserve, ove il lucicchìo della luna e di stelle ormai incerte è tutto nel baluginare di ottavini, flauti, oboi e clarinetti. Amelia, che poi scopriremo essere quella bambina che sembrava perduta, è
«una giovine modesta quieta vaporosa»
ma non è un simbolo, è una funzione, quella parte della vita che è lì per sottolinearne altre: il suo desiderio, la sua speranza, il suo sentimento sono tutto ciò che in Boccanegra è sepolto per sempre.
Anche Gabriele Adorno è una funzione, quella dell’improntitudine sotto il nome della gioventù: si annuncia come un tenorino donizettiano, canticchia come un trovatore, amoreggia come un Edgardo, ma è pasticcione come un Alfredo, anche se ha la fierezza e l’onestà di un Ernani. Si ritroverà alla fine doge per nomina e non per elezione, per meriti morali acquisiti, il che ha anche il sapore di una velata critica ai limiti delle democrazie, anche se prima deve passare sotto le forche della sindrome del complotto – eterna nevrosi di ogni crisi d’identità. Ma ascoltiamo bene: non si è ancora spento il suono del mare. Nel racconto di Fiesco a Gabriele è attutito dalle sordine degli archi arpeggianti, in quello fra Amelia e il Doge è tremore ansioso: il primo è sottile manipolazione, il secondo è angosciata speranza. Simone ha ritrovato ciò che non credeva esistesse più: un significato per la propria esistenza, un futuro che abbia continuità con il passato. Amelia in fondo non si chiama anch’ella Maria?
Può dunque affrontare con altro piglio l’odio travestito da politica, sotto le volte della sala del Consiglio. Qui non c’è più il mare che Verdi, all’epoca della prima versione nel 1857, neppure riusciva a scorgere dalla sua stanza dell’Albergo Croce di Malta a Genova. Semmai le arcate di Palazzo Doria, che Verdi nel 1881, mentre rimaneggiava l’opera con Boito, già abitava da anni. Ora sì che il Doge è pronto per fronteggiare da solo a un’intera comunità, invocandone la pace con la scusa di un appello petrarchesco scovato da Verdi, e che Verdi ritrova al fondo di un’esperienza di patriota ormai, come quella di Boccanegra, disillusa dai fatti:
«Sublime questo sentimento d’una Patria italiana in quell’epoca!»
Infuria una sommossa come nei Vespri, Boccanegra tien testa anche a quella. Tiene testa al ragazzo Gabriele che le spara grosse – e la figlia gli arriva in soccorso: eccolo, il passato che acquista un senso – e tiene testa all’orrido Paolo Albiani, costretto a un’ignobile automaledizione, una delle più potenti maledizioni del teatro verdiano. Qui c’è davvero grande teatro di interpretazione, ma tutto Simon Boccanegra è canto, gesto, sguardi, smorfie, movimento:
«quindi grandi attori prima di tutto.»
Si può dire che il dramma finisca qui? Non sarà che il veleno, il tentato omicidio del Doge da parte di Gabriele, il nuovo intervento di Amelia – ormai un destino – e il pentimento di Gabriele, infine il mesto confronto con Fiesco, ex nemico perché sa cosa sia avvicinarsi alla fine senza più nulla da chiedere, siano solo la morale della parabola? Ci sono segnali d’un teatro antico ma acconcio: il duetto dei giovani, l’ultimo impeto del Doge, i corni che annunciano il messaggero. È un concerto da camera che a lungo si trascina senza colpi di scena e lentamente si spegne. Boccanegra impiega un atto intero per morire. Le voci sono più forti dell’orchestra, persino quella di Paolo mentre passa in catene, in una delle tante incongruenze di quest’opera in cui si va su e giù per Palazzi Ducali e appartamenti altrui come niente fosse.
È vero, quest’opera è l’opera brunita dei due anziani, di Fiesco e di Boccanegra. Non sottovalutiamo però Paolo Albiani:
«indispensabile un Paolo baritono attore sopratutto»
che è così moderno: un meschino figuro della politica, come tanti di oggi che si montano la testa appena seduti su una poltroncina.
All’ultima sera, Boccanegra sente il bisogno d’aria, l’aria del mare. La scena torna dove era cominciata, nella Genova eterna che guarda verso l’ignoto. E così Giuseppina Strepponi ha potuto dire, ed è come se parlasse Verdi:
«Io mi riposo dalla fatiche dell’istromentale del Boccanegra (!!)
e guardo quel bellissimo mare che mi sta in faccia»